Altare votivo con Asclepio, Igea e Telesforo
Marmo bianco
Alt. 118 cm, diam. 55,5 cm
Metà II d.C.
Opera soggetta a decreto di notifica
Grande monumento votivo in marmo bianco caratterizzato da largo fusto cilindrico e semplice modanatura superiore e inferiore. Il rilievo di buona resa stilistica risulta anche ben conservato, mantenendo un’evidente plasticità delle forme emergenti e delle immagini di divinità presenti.
Infatti, sulla superficie è scolpita la triade divina, composta dal dio Asclepio, da Igea e da Telesforo. Asclepio, il dio della medicina, delle guarigioni e dei serpenti è raffigurato stante, avvolto nel mantello e appoggiato con l’incavo del braccio destro al bastone intorno al quale si attorciglia il serpente sacro; accanto al piede sinistro compare l’omphalos di Apollo. Alla sua destra, dopo una parte di superficie lasciata liscia, è scolpita la figlia Igea, rappresentata con i capelli raccolti, ed indossa chitone e mantello; sul braccio destro si riconosce il serpente sacro. Completa la rappresentazione la figura di Telesforo, tradizionalmente riconosciuto come figlio del dio, che è raffigurato stante avvolto in un mantello di lana con cappuccio, la paenula cuccullata e la cui attività riguarda la funzione di assistenza nelle attività medicali esercitate dal padre. Il cercine di Asclepio cinge la sua testa tenendo i capelli nella classica pettinatura delle divinità greche. La bocca è serrata dalle labbra carnose e folti baffi, mentre lo sguardo fermo e deciso è rivolto verso destra in direzione di sua figlia Igea, aiutante e seguace dell’arte medica e protettrice della salute. I tre protagonisti scolpiti riprendono l’iconografia ben conosciuta per le tre divinità, riscontrabile nella statuaria greca, poi ripresa e duplicata da numerosi esemplari di periodo romano imperiale. Così la figura di Asclepio rivela uno schema riconducibile nei tratti essenziali al tipo statuario dell’Asclepio “Giustini”, risalente ad un originale attico degli inizi del IV secolo a.C., rielaborato in età romana in molti esemplari giunti fino a noi. In particolare, forti sono le somiglianze con l’esemplare statuario proveniente da Tivoli e ora custodito nei Musei Vaticani. Il volto del dio è sapientemente reso anche nei dettagli che si possono osservare nonostante la superficie sia leggermente abrasa, i capelli e la barba sono folti con ciocche dense che terminano con il caratteristico boccolo a chiocciola. Per quanto riguarda la gestualità e gli attributi di Igea, la divinità femminile riprende il tipo statuario Broadlands- Conservatori, confermato dalle numerose repliche romane derivanti da un originale greco del IV-III secolo a.C. La dea ha i capelli raccolti in un krobylos dietro la nuca e indossa chitone e mantello, il cui lembo, scendendo dalla spalla destra e coprendo il gomito per appoggiarsi all’avambraccio sinistro, ricade verso l’esterno in abbondanti pieghe fittamente scanalate con grande resa plastica, che richiamano alla mente esemplari di epoca traianea e antonina. Le braccia, nella consueta iconografia, sono protese in avanti nel compiere una libagione e il serpente sacro le avvolge con le sue spire, mentre nella sinistra sostiene inclinata la patera nell’atto di offrire nutrimento al rettile, di cui è perso il muso.
Infine, il terzo personaggio che completa l’ara è Telesforo, rappresentato stante con i piedi nudi accostati e completamente avvolto nella paenula cucullata, il pesante mantello di lana munito di cappuccio che caratterizza la singolare iconografia di questa divinità. L’associazione di Telesforo alla coppia divina Asclepio e Igea e la sua forte presenza nell’iconografia è tarda: è Pausania a parlarci dell’introduzione ufficiale di Telesforo nel santuario di Asklepios a Pergamo e la sua importanza è confermata da monete e iscrizioni databili tra il 98 e il 102 d.C.; così come dalla costruzione del Telesphoreion all’interno dell’Asklepieion di Pergamo. Numerose testimonianze monetali e iconografiche documentano un ulteriore incremento del culto del piccolo fanciullo dalle proprietà salutari durante l’impero di Adriano, Settimio Severo e Caracalla, mentre continua ad essere rappresentato anche in rilievi votivi insieme ad Asclepio e ad Igea in Tracia e Asia Minore. Il suo nome significa “colui che porta a completo sviluppo”, “che porta a compimento”, “a maturazione i frutti”, quindi era propizio non solo alla guarigione, ma anche alle nascite. La prima statua marmorea di Telesforo viene individuata in una scultura del Museo di Monaco di epoca adrianea, che mostra note- voli somiglianze con il nostro rilievo dell’Altare di Asclepio.
La datazione del reperto è da inquadrare, quindi nel II secolo d.C. e più precisamente secondo Daniela Bonanome (in “Altare votivo ad Asclepio, Igea e Telesforo”, in Lazio e Sabina 9, 2012, pp. 246- 252) nel periodo degli Antonini intorno al 160 d.C.: probabilmente fu realizzato da un privato a seguito della terribile epidemia scoppiata tra le legioni impegnate sul fronte partico (165-166 d.C.), nota come “peste Antonina”, e diffusasi rapidamente in tutto l’Impero. Moltissime furono le perdite umane, tra cui lo stesso imperatore Lucio Vero nel 169 d.C. e a seguire Marco Aurelio nel 180 d.C. Come afferma la Bonanome l’altare della triade divina potrebbe essere una prova tangibile di quanto vivo fosse il timore verso la malattia epidemica e delle modalità con cui si cercava la protezione divina.
L’altare di Asclepio presenta anche una storia interessante riguardante proprio la vicenda del suo studio e conservazione. Infatti, per la prima volta fu pubblicato nel 1994 dal Dräger nella sua raccolta di studi su altari e basi romane in ambito religioso grazie all’osservazione di alcune foto presenti nell’Archivio Fotografico dell’Istituto Archeologico Germanico, scattate nel 1982 e in cui risultava una provenienza dal Museo archeologico di Grottaferrata e veniva datato dallo studioso tedesco al I secolo a.C. (Dräger, O., Religionem Significare. Studien zu reich verzierten römischen Altären und Basen aus Marmor, Mainz a. Rh. 1994, p. 194, n. 15). In seguito, l’altare fu pubblicato nella raccolta di opere provenienti dall’Abbazia di San Nilo a Grottaferrata nel 2008 con una scheda di Daniela Bonanome, in cui il reperto risulta disperso o meglio conservato “probabilmente in col- lezione privata”. L’elemento più interessante è che finora non era noto il lato dell’altare con la figura di Telesforo semplicemente perché non era mai stato fotografato; quindi, gli studiosi potevano solo ipotizzare la sua presenza calcolando uno spazio di risulta che poteva contenere un’altra figura a rilievo. Solo nel 2012, in occasione della pubblicazione degli Atti del convegno sul Nono incontro di Studi sul Lazio e la Sabina, la stessa Bonanome poté presentare lo studio completo del reperto grazie al suo ritrovamento in proprietà privata Belisari. La studiosa riesaminando il reperto ha potuto compiere un approfondito studio iconografico soprattutto sulla figura di Telesforo e determinare con più precisione la datazione. L’altare di Asclepio è stato sottoposto a tu- tela dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio con D.D.R. del 26/02/2013 e in seguito nel 2016 acquistato dalla Fondazione Sorgente Group ed esposto nello Spazio Tritone affinché possa essere di nuovo di pubblica fruizione.